ARTICOLI | 1996
LA TERZA VIA
La “terza via” è quella della riduzione del danno, a torto ritenuta dai proibizionisti vicina ad ipotesi di liberalizzazione o di legalizzazione delle droghe oppure vissuta da chi pensa che è vitale disintossicare il tossicodipendente costi quel che costi e con ogni mezzo, come un programma di ripiego, di resa e di ridimensionamento delle ambizioni professionali salvifiche degli operatori. Questa scelta di strategia terapeutica , per quello che ci riguarda proviene, invece, dalla nostra esperienza clinica di questi anni che ci ha insegnato che il passare del tempo è un alleato e non un nemico della terapia, non fosse altro perché col tempo il fascino delle sostanze nel singolo assuntore tende inevitabilmente a diminuire per assuefazione, nel mentre crescono le probabilità di riscoperta di alternative alla droga.
Chi abbia un minimo di confidenza coi tossici sa che è ben diverso rapportarsi con chi é tutto preso dalla totalizzante esaustività dell’eroina, che ama alla follia in una luna di miele che non tollera incomodi o disturbi, dal proporre stili di vita meno auto distruttivi a chi è giunto a maledire la sua condizione di tossico ed il momento in cui ha cominciato a drogarsi.
Se la motivazione a smettere cresce spontaneamente e inevitabilmente col passare del tempo, accompagnandosi in modo proporzionale allo charme calante della droga, la terapia deve tenere conto di questa realtà, assecondandola senza tentare di forzare oltremodo la mano alla natura delle cose. E’ vero che la motivazione a smettere può essere essa stessa oggetto di una strategia terapeutica, ma non fino al punto di pretendere l’impossibile, perchè il prezzo che si paga può essere molto elevato fino a mettere in discussione la sopravvivenza stessa del tossicomane. Anche pretendere sempre e comunque la disintossicazione come punto di partenza di ogni intervento, vuol dire negare l’esistenza stessa della tossicomania, della malattia, cioè, di chi é incapace di sopravvivere senza droga, ponendo cosi le basi dell’insuccesso e della successiva cosiddetta ricaduta. Quanti genitori e quanti terapeuti si sono (a fin di bene?) comportati da aguzzini?
Quanti hanno avuto chiaro il concetto che tossicodipendente non è chi si droga, ma chi è incapace di sopravvivere senza droga in una certa fase della sua esistenza?
EVITARE L’IRREPARABILE
Fare riduzione del danno vuol dire in primo luogo evitare l’irreparabile adattando l’intervento alle obiettive possibilità di reazione del soggetto malato di droga, in una strategia dove è la terapia che si adegua all’individuo e non viceversa, come spesso avviene nelle strutture affette da integralismo terapeutico dogmatico, ma anche in tanti, troppi SerT. Vuol dire anche farsi carico della situazione globale del paziente, della qualità della sua vita, della sua felicità o infelicità.
Vuol dire sapersi porre degli obiettivi intermedi, al posto di quello della redenzione globale. Vuol dire sapersi accontentare dei successi parziali e praticabili e non sognare soltanto l’impossibile, scaricando poi sul tossico le proprie frustrazioni se il risultato perfetto non viene raggiunto. Se è vero, come scrive Olievenstein, che “il n’y a pas des droguès hereux”, la strategia della riduzione del danno può contribuire significativamente a ridurre l’infelicità di chi è ancora incapace di elaborare per se un progetto di vita indipendente dall’uso di sostanze.
ANDARE A CERCARE
Crediamo che il primo e più importante contenuto della strategia di riduzione del danno consista nella ricerca attiva del tossicomane, che contraddice l’abituale clichet terapeutico delle diverse strutture in attesa a volte serena e consapevole, altre volte ossessiva e patologica, del soggetto motivato. L’attesa pure obbedisce ad una precisa strategia: il soggetto che va ad un centro è comunque diverso e “migliore” di chi non si pone ancora il problema di andarci. Se poi il centro detta una serie di regole e di precetti come condizione essenziale per continuare a frequentarlo, il risultato è quello di una ulteriore selezione di motivazione tra chi è in grado di sopportare le frustrazioni insite nelle prescrizioni ricevute e chi tali frustrazioni non è in grado di elaborare e quindi abbandona.
La colpa in ogni caso ricadrà su di lui e a nessuno verrà in mente di ipotizzare il contrario. Quanto più i precetti sono rigorosi ed esigenti tanto più dura è la selezione e tanto più elevata è la possibilità di un risultato finale positivo. La cosa ha una sua logica a condizione che altri si facciano carico dei soggetti con motivazione ridotta cioè, per esser chiari, che i servizi pubblici territoriali siano in grado di recuperare e trattare quanti vengono scartati dai metodi selettivi, diremmo giustamente selettivi, delle comunità terapeutiche, obbligate al rigore dalla esigenza di salvaguardare la governabilità, e quindi la terapeuticità complessiva della struttura.
Ancora più logico sarebbe il tutto, se a monte della decisione di intraprendere questo o quel cammino terapeutico, ci fosse una diagnosi, il capire cioè che cosa è meglio per quel soggetto in quel momento, anziché le spinte emotive giornalistiche e televisive che orientano sempre e comunque verso l’oasi salvifica di redenzione, anche quando la redenzione è oggettivamente irrealistica o francamente impossibile. Andare a cercare il tossicomane nei luoghi dove questo vive e si droga contraddice la scelta terapeutica di farsi carico solo di chi lo voglia fortemente, andando cosi incontro a quanti sono cosi patologicamente dipendenti da non trovare neanche lo spazio per una ipotesi di cambiamento. Se il soggetto che vuole smettere di drogarsi è malato, quello che nemmeno si pone il problema è ancora più malato.
Se il primo è sempre una mina vagante, il secondo è una mina vagante due volte, un pericolo ambulante per sè e per gli altri. E’ dunque interesse di tutti contattarlo al più presto, senza attendere quella “maturazione” spontanea che altro non è che il portato di eventi che possono essere oltremodo drammatici tanto per il singolo che per la società nel suo insieme.
Strategia alla ricerca e strategia dell’attesa non sono incompatibili fra loro, ma si rivolgono solo a soggetti diversi ed in una diversa fase della loro dipendenza. E’ opportuno che ogni strategia abbia chiari i suoi obiettivi e i suoi limiti, evitando accavallamenti o scimmiottamenti che penalizzerebbero l’efficacia dell’intervento.
La ricerca attiva, in altri termini, non può porsi l’obiettivo immediato della guarigione che è il portato di tempi lunghi e di altri passaggi più o meno obbligati. Dall’altra parte, l’intervento selettivo non può dimenticare chi non è in grado di sopportarlo, abbandonandolo a sé stesso ed alla sua disperazione, spesso frutto di irreversibilità.
GLI OPERATORI
Dal punto di vista dell’operatore l’attesa è più facile della ricerca. E’ più tranquillizzante credere di avere la ricetta capace di guarire piuttosto che porsi l’obiettivo di minima in cui manca la gratificazione immediata del risultato. Se l’operatore di comunità deve essere opportunamente formato a saper gestire le perfidie seduttive del tossico in trattamento, ancor più deve essere formato l’operatore di strada ad aver chiari i limiti del suo mandato e non per questo entrare in depressione.
L’operatore di strada deve avere chiaro il concetto che il suo operato è tutto finalizzato all’obiettivo di evitare danni peggiori a chi si droga, cioè ad evitare che chi si droga cada nella irreversibilità della sua situazione.
La droga non è mai irreversibile e chiunque si droga può sempre smettere di farlo, quando gli aspetti negativi della sua dipendenza superano algebricamente quelli positivi e gratificanti. Può essere irreversibile l’eccesso di droga, può essere irreversibile la malattia infettiva legata alla contaminazione virale del farsi. Di qui l’esigenza che l’operatore di ricerca attiva disponga del farmaco di pronto soccorso per l’overdose, così come delle siringhe da distribuire in cambio di quelle già usate, o dei profilattici atti a evitare il contagio per via sessuale.
Un operatore di strada deve sapere tutto sul Narcan ed essere anche pronto ad usarlo in caso di necessità e di mancanza di un medico, la cui presenza è peraltro auspicabile nei luoghi dove più elevata è la concentrazione di tossicomani e la probabilità di overdose.Lo stato di necessità giustifica in ogni caso l’uso del farmaco anche da parte di personale non abilitato.
LA RETE A VALLE
Chi promuove a qualsiasi titolo attività di ricerca attiva di tossicomani è indispensabile che abbia ben chiaro in mente che tale tipo di attività sarebbe totalmente inutile se a valle ed in stretto collegamento con essa non fossero disponibili tutta una serie di interventi consequenziali, capaci di rappresentare una alternativa competitiva e valida alla vita di strada. Sarebbe anzi più che inutile, dannoso, suscitare aspettative che non si sia in grado poi di realizzare, ricalcando il cliché dell’operatore sociale impotente tanto diffuso nelle strutture assistenziali italiane.
Luoghi di pronta accoglienza dove sia possibile fare una doccia, avere un pasto caldo, dormire qualche notte, indipendentemente da una raggiunta condizione di drug-free; ambulatori in cui fare analisi di laboratorio anche in anonimato, ricevendo in maniera sollecita, umana e comprensibile, le risposte che spesso sono in grado di sconvolgere l’esistenza anche di soggetti con ben altro equilibrio; un posto, infine e soprattutto, dove poter intraprendere, se necessario, una terapia metadonica.
Questi i tre passaggi auspicabili per una azione di riduzione del danno che voglia dare un seguito coerente e concreto alla ricerca attiva del soggetto. L’Unità di strada di Villa Maraini La Conferenza di Palermo ed il cambiamento culturale iniziato in Italia in quel periodo riguardo un nuovo atteggiamento strategico nel campo delle tossicodipendenze non ha trovato Villa Maraini impreparata dal punto di vista operativo, dato che non solo avevamo impiantato l’attività dell’Unità di strada fin dal marzo 92, ma già eravamo nati nel 1976 con le caratteristiche di chi si rivolge verso il disagio dei tossicomani senza pregiudizi o concetti preconfezionati e con uno spirito di accoglienza, di ascolto e di solidarietà tipici della Croce Rossa da cui provenivamo.
Da qui l’istituzione della Comunità diurna, la prima in Italia, e la decisione di voler entrare nelle carceri romane per supportare le migliaia di tossicodipendenti che la regnante ottica repressiva-punitiva portava sempre più ad affollare. Questa nostra scelta metodologica è avvenuta, dunque, ben prima del diffondersi del virus HIV tra la popolazione TD che ha costretto piano piano molte altre strutture ad imboccare la nostra strada, a non rinchiudere il problema entro quattro mura ma ad affrontarlo dove drammaticamente si evolve creando i presupposti perchè si diffondesse la coscienza che si tratta di un problema di tutti e non solo di chi si inietta eroina.
L’idea specifica del camper era nata molti anni prima, durante una visita di Massimo Barra alla Croce Rossa colombiana che tutte le sere faceva uscire un camper alla ricerca di gamines, i bambini di strada che affollano la periferia di Bogotà e che fin dagli otto anni ben conoscono quanto sia difficile sopravvivere.
Il progetto fu poi perfezionato nel successivo incontro con Pietro Arcari, un uomo che aveva sperimentato su di sé l’esclusione e la rigidità di certi meccanismi terapeutici ed aveva una forte sensibilità strategica verso chi soffre e si sbatte quotidianamente. Su questi presupposti nacque l’idea di costituire un servizio ad hoc che si rivolgesse a chi in strada vive drammaticamente la propria solitudine.
Un servizio composto da medici, psicologi e operatori ex-td i quali venivano individuati come essenziali al raggiungimento dell’aggancio con la strada, utilizzando un camper specificatamente attrezzato agli interventi previsti, il tutto sotto l’egida della C.R.I. ed il supporto dei Volontari del Soccorso della Croce Rossa che completavano le figure operative dell’Unità di Strada.
La formazione degli operatori Nel pensare alla costituzione dell’équipe base dell’UdS non si poteva evitare di designare come centrale la figura dell’operatore ex-td. La capacità di aggancio-riconoscimento e la conoscenza del gergo e della vita di piazza erano caratteristiche irrinunciabili per un servizio che andava ad operare in quel campo. La costituzione di un corso di formazione per operatori ex tossicodipendenti è stata sicuramente una delle novità più stimolanti di quel periodo.
La Fondazione aveva esperienza di formazione per i servizi tradizionali, rivolta principalmente a medici, psicologi, educatori di comunità, ed il preparare operatori di strada, persone che avevano avuto nel passato esperienze tossicomaniche, ha spinto la struttura verso una riflessione e una ricerca di nuove strade formative. Le esperienze di Liverpool, gli scambi formativi avuti a Berlino ed in Olanda oltre alla conosciuta capacità operativa sperimentata in comunità dell’operatore ex-td sono state le basi su cui impiantare lo scheletro formativo del corso. L’operatore sociale ex tossicodipendente L’operatore sociale ex tossicodipendente trova la sua naturale e logica collocazione ai confini più estremi dell’intervento a bassa soglia con tossicomani attivi non motivati a intraprendere un qualsiasi percorso di recupero.
Proprio nella “piazza”, in quella sorta di “terra di nessuno” creata dalla latitanza delle Istituzioni e dei Servizi Pubblici dove nessuno si vuole andare ad impantanare, l’operatore soc/ex diventa l’anello di congiunzione tra il problema e le sue possibili soluzioni. L’operatore di strada ex non viene immediatamente gratificato dal suo lavoro. Ciò è in parte dovuto alla formazione stessa degli operatori, molti dei quali cresciuti in Comunità Terapeutica, dove l’impegno personale e l’adesione alle regole della vita comunitaria devono essere totali fino alla fine del programma. Impegno e adesione che nessuno potrà mai pretendere da chi ancora non ha esaurito la fase dell’innamoramento per l’eroina e per la vita di strada. Venendo in contatto con tossicomani attivi che in quel momento non vogliono per qualsiasi ragione modificare o cambiare il loro modo di vita, l’operatore trova il primo ostacolo da superare, ostacolo causato dalla sua stessa formazione ideologica.
E’ il primo conflitto che si crea per l’operatore ex che si trova costretto a mettere in discussione alcuni principi di formazione con cui è cresciuto in un programma di C.T. residenziale: è in questi momenti che si ridimensiona il delirio di onnipotenza dell’operatore che si trova di fronte ad una situazione che non ha il potere di mutare, ma nella quale riesce ad inserirsi grazie alla sua esperienza, portando una forma di sostegno in “positivo” allo scopo di stimolare, nell’utente, la riscoperta delle proprie qualità e potenzialità e la ricerca degli strumenti utili ad un cambiamento sano del proprio stile di vita.
Questo tipo di approccio non crea più sensazioni di impotenza operativa, bensì mette in evidenza che ci sono diversi livelli d’intervento: se è importante intervenire con persone già motivate, è determinante essere presenti sulla strada per raccogliere la richiesta di aiuto, in qualsiasi forma si presenti, e aiutare nei bisogni primari chi è ancora nella fase attiva della tossicodipendenza. Principale alleato dell’operatore di strada ex/Td è il “gergo”, che permette di entrare immediatamente in contatto con persone che vivono la strada, usando il linguaggio della stessa (e di coloro che ne fanno parte) che stravolge nomi, e significati, fino all’essenza del discorso, per poi riordinare il tutto come in un mosaico, dando il nome e il senso originale alla richiesta nascosta tra i mille ma… se… però…
L’individuazione del territorio Il secondo tema affrontato nella costituzione dell’UdS è stato quello di individuare il territorio su cui andare ad operare in una città così vasta come Roma che aveva, e continua ad avere, esigenze e vuoti enormi nei quali inserirsi. Dopo esperienze periferiche, ad Ostia ed in un quartiere popoloso come Magliana, si è privilegiata la stazione Termini perché rappresentava la piazza più grande di Roma per quello che riguarda il fenomeno della tossicodipendenza.
Infatti oltre ad una maggiore concentrazione numerica di tossicomani, vi si trovavano tutti gli epifenomeni legati a questo disagio: spaccio, prostituzione, senza casa e abbandono familiare, casi di overdose. Se questa scelta ci ha impedito la caratterizzazione di quartiere tipica di molte UdS, ha potuto però facilitare la conoscenza del nostro servizio in tutta la città; in effetti la Stazione Termini dopo le ore 21 diventa la zona di spaccio di tutta Roma dato che di norma a quell’ora chiude lo spaccio di quartiere. In funzione di questo importante fattore è stato scelto come orario operativo quello delle ore 18 – 24. L’esigenza di non ghettizzare questo lavoro solo su di un’area ben definita ci ha spinto ad essere presenti ai grandi incontri di aggregazione cittadina quali le manifestazioni estive organizzate dal Comune o concerti e spettacoli di grande richiamo popolare, fino ad arrivare ai convegni nazionali ed internazionali sul fenomeno droga dove portare la nostra esperienza.
I rapporti con le forze dell’ordine L’attività di strada, i continui contatti con tossicodipendenti attivi che per forza di cose, spesso, hanno in tasca la loro dose di eroina, ha inizialmente attirato l’attenzione di polizia e carabinieri.
Il rischio era che intorno all’Unità di Strada si scatenasse la loro azione repressiva. Questa interferenza, seppur legittima, avrebbe reso vano il nostro lavoro. La nostra credibilità, il rapporto di fiducia che avevamo impostato con i tossicodipendenti con un lungo e difficile lavoro, sarebbero crollati dopo il primo arresto. Per impedire questa eventualità abbiamo contattato la Prefettura, i commissariati e le caserme di zona per spiegare quali fossero le nostre intenzioni, sottolineando quanto fosse importante mantenere ben distinti e distanti i nostri spazi d’intervento per non dare adito ad equivoci. Con il tempo, a parte alcuni inevitabili episodi, siamo giunti ad una sorta di tacito accordo con le forze dell’ordine, che spesso ci chiamano per interventi di astinenza o overdose anche all’interno delle loro postazioni.
La collaborazione della C.R.I. La convivenza della Fondazione con la C.R.I. dal momento della sua costituzione fino ad oggi ha sempre trovato momenti di intensa collaborazione ed efficace utilizzazione di personale volontario in tutti i servizi esistenti. Con la nascita dell’UdS, la scelta di donare il camper alla CRI targandolo così sotto l’egida di questa sigla portatrice dei valori di solidarietà e garanzia per i più deboli, è stato sicuramente un valido passaporto per la diffidenza iniziale dell’utenza, normalmente lontana da qualsiasi istituzione, e per instaurare un valido rapporto con il territorio e le realtà lì esistenti non ultime le forze dell’ordine. Il lavoro di sensibilizzazione svolto in tal senso ci ha dato la possibilità di ottenere la “cittadinanza onoraria” alla Stazione Termini agli occhi di tutti anche dei più scettici ed inoltre la collaborazione necessaria per offrire quei servizi che avevamo in mente di organizzare.
IL METADONE
Andare a cercare per strada chi si droga e non avere a disposizione, sul luogo stesso del contatto o in un centro a ciò deputato, il metadone, è una contraddizione in termini e un non-senso.Il metadone, infatti, è l’unico farmaco logicamente e legittimamente impiegabile, che sia capace di far cambiare da un giorno all’altro le sue consuetudini a chi è dipendente. Privarsene, magari per un pregiudizio ideologico, è folle. Usarlo male, come purtroppo avviene in troppi servizi in mano a personale non specificatamente qualificato, è ancor più folle. Il metadone va usato, quando serve, alle dosi giuste per il tempo necessario.
“Risparmiare” sulle modalità di durata e quantità porta ad un uso del farmaco che è soltanto “simbolico” ed incapace di incidere positivamente nell’impatto col paziente cui è destinato. Su questo è stato già detto e scritto tutto quanto è necessario sapere, ma esiste ancora troppa “ignoranza ideologica” per potersi considerare soddisfatti della situazione in atto in Italia.
L’OVERDOSE
Sapendo di andare ad operare in un area ad alta densità di rischio l’UdS VM decise di integrare nell’équipe la figura del medico per le emergenze che si potevano incontrare, scelta fino a quel momento inedita perché non avevamo trovato riscontri in proposito nelle ricerche e negli scambi con esperienze estere. L’alto numero di interventi effettuati in questi anni ha dimostrato quanto quella scelta fu azzeccata oltre che decisiva per la valutazione dell’intero operato.
La frequente operazione di intervento, eseguita sempre in condizioni di estrema emergenza, ha costretto tutti gli operatori a mutare la loro originaria funzione. Spesso si sono visti costretti ad intervenire in prima persona effettuando l’iniezione del Narcan perché la gravità della situazione non permetteva l’attesa del medico del camper. Oggi, in tutti i giri itineranti che ogni sera si effettuano nei luoghi “a rischio”, come i sottopassaggi pedonali e i corridoi sotterranei della metropolitana, gli operatori sono pronti ad intervenire per qualsiasi emergenza si verifichi e sono in costante contatto radio con il medico di base al camper.
Le richieste Inizialmente il contatto con un numero sempre maggiore di persone con varie problematiche ha costretto il nostro servizio ad organizzarsi per tentare di soddisfare le richieste che venivano fatte. E’ stato fatto un grande lavoro di ricerca per offrire una mappa aggiornata dei servizi presenti a Roma in grado di dare risposte anche a quelle richieste di prima necessità, non necessariamente legate alla tossicodipendenza, che la Fondazione non era ancora preparata a ricevere.
Le richieste d’alloggio notturno hanno rappresentato una notevole fonte di frustrazione vista la totale mancanza nella città di strutture di facile accesso. Il più grande degli ostacoli che abbiamo incontrato e con il quale ancora oggi ci scontriamo è rappresentato dall’ottusità della burocrazia che rende inaccessibili i vari servizi per tossicodipendenti, in special modo quelli pubblici.
Primeggiano in questa triste classifica i SerT, in maggioranza governati da una polverosa rigidità che respinge invece che accogliere il tossicodipendente in cerca di un sostegno metadonico. Questo problema è stato poi inserito e in parte risolto dal Programma Integrato di Riduzione del Danno dell’Osservatorio Epidemiologico, realizzato in larga parte dalle strutture di Villa Maraini, che ha individuato un servizio specifico cui avviare tutte le persone contattate dall’Unità di Strada, bisognose di un trattamento farmacologico.
GLI STRANIERI
Porto di mare, ma di un mare sempre in tempesta, Termini ci fa incontrare moltissimi stranieri, non solo extracomunitari, invischiati con le sostanze, con una serie di problemi a partire dalla lingua fino ad arrivare ad episodi di razzismo, violenza e criminalità, cui abbiamo assistito e a volte subito conseguenze dirette. Per questa particolare utenza diviene ancora più importante il concetto di accoglienza per non lasciarli in pasto all’intolleranza, alla criminalità e all’abbandono completo di ogni precauzione verso se stessi e gli altri.
LA PROSTITUZIONE
Durante il lavoro di strada, l’incontro con il mondo della prostituzione, di uomini, di donne e transessuali, dopo quello con gli stranieri, è stato per noi un altro momento di crescita professionale notevole. Il contatto quotidiano con persone coinvolte nell’industria del sesso ci ha portato ad elaborare interventi di prevenzione su strada specificamente rivolti a questo target.
Nell’estate del ’94 è stata condotta un’indagine nel mondo della prostituzione in relazione alla tossicodipendenza e ai rischi di contagio per HIV, in collaborazione con la Provincia di Roma e la Croce Rossa. Non si è trattato di un’indagine meramente conoscitiva, ma di un vero e proprio intervento sperimentale di prevenzione sulla strada.
Sono stati contattati 108 soggetti di cui 68 (il 63 %) stranieri, ai quali é stato sottoposto un questionario che sondava gli aspetti legati alla prevenzione e al grado di informazione sui temi dell’HIV, ma anche domande più personali che fornissero un quadro globale della storia della persona. Nel condurre l’indagine l’équipe dell’Unità di Strada ha percorso di notte le zone della prostituzione per contattare direttamente le persone dedite a questo tipo di attività sul “posto di lavoro”.
La naturale diffidenza è stata superata innanzitutto grazie al fatto che per gli spostamenti venivano utilizzati mezzi di Croce Rossa, nota in tutto il mondo per la sua neutralità, e grazie all’esperienza maturata dagli operatori nel lavoro di strada che ha permesso di instaurare dei rapporti umanamente significativi per veicolare i messaggi preventivi.
Il sommerso Uno degli obiettivi dell’UdS è quello di far emergere tutta una serie di situazioni non conosciute ai servizi pubblici o privati, sia situazioni annose sia disagi molto giovani. Ecco allora il contatto significativo con le giovani leve che iniziano la loro carriera tossicomanica e che hanno bisogno di poche prediche, di informazioni preventive e di ampia disponibilità ed il contatto con i “vecchi” avvezzi a rapporti con le strutture di tipo remissivo o rigido che hanno perso la fiducia e il senso di affidamento e in cui il nostro atteggiamento di disponibilità gratuita, di ascolto senza chiedere qualcosa in cambio, mette in crisi lo schema di riferimento costruito negli anni. Da sottolineare che molte volte questa rottura di schemi rigidi apre nuove prospettive e richieste, per cui si spiegano i nuovi invii a strutture pubbliche per piani di metadone e verso Comunità Terapeutiche effettuati attraverso il lavoro dell’UdS.
L’affluenza e capacità della C.T. diurna di Villa Maraini ha avuto un incremento del 50% da quando è attiva l’UdS, e ciò fa capire come questo lavoro possa essere compreso come complementare e non come alternativo alle altre risposte esistenti. Il Centro di Prima Accoglienza Supporto indispensabile all’UdS è stato l’aver approntato un Centro di P.A. dove indirizzare chi ne faceva richiesta, le persone che avevano bisogno di contenimento protetto, di un luogo dove progettare l’eventuale astinenza e la preparazione ad un programma terapeutico (orientamento verso Comunità o servizi) fino agli interventi a bassa soglia come un pranzo caldo, una doccia, una notte in un letto pulito. Chi arriva in Comunità ha già percorso le tappe di una evoluzione dura della sua dipendenza, alcuni hanno già pagato un alto prezzo, il più alto, che forse poteva essere evitato. Agli innamorati delle sostanze va proposto un contatto, un luogo di contatto, un farmaco di contatto, una forza di contatto.
L’importanza di creare proposte elementari per non lasciare soli gli innamorati, per non proporre per forza soluzioni capestro, ma proposte di attesa, di attesa del treno che è importante non perdere per far passare la notte, la notte dell’innamoramento fallace. Queste considerazioni ci hanno suggerito di proporre ai ragazzi contattati dal camper ed a qualsiasi altro che fosse nelle medesime condizioni, il Centro di Prima accoglienza perché quella notte che deve passare non sia la notte della solitudine, la notte del giudice, del carcere, della sconfitta totale. Uno spazio di contenimento protetto , dove le persone partecipano ad attività, riunioni, colloqui, controlli sanitari, tutto al fine di poter elaborare in un momento successivo un progetto di cambiamento.
L’integrazione tra le diverse domande è stata la difficoltà più grande da superare e c’è voluta una grande disponibilità ed attenzione da parte degli operatori di questo servizio che hanno attinto alla loro esperienza di operatori di strada per rispondere in modo adeguato a tutte queste richieste. Lo scambio di siringhe.
Il materiale di profilassi all’infezione HIV, quale la siringa sterile ed il profilattico oltre ad avere questa importante funzione è stato spesso una modalità di aggancio con la variegata utenza che incontravamo sul lavoro. Lo scambio con la siringa usata dava, oltre l’eliminazione dalla strada di un potenziale veicolo d’infezione, la possibilità del contatto anche con chi è visibilmente “sconvolto”, modalità spesso rifiutata nei servizi perchè non ritenuta terapeuticamente corretta.
Tale distribuzione di siringhe sterili e ritiro di siringhe usate se é fonte di turbamento per l’opinione pubblica, può esserlo anche per l’operatore stesso che potrebbe subire l’impatto di sensi di colpa quasi fosse il suo operato causa di una ulteriore diffusione della droga. E’ bene allora che tutti abbiano chiaro in mente che non è il possesso o meno della siringa l’elemento capace di consentire o impedire un ulteriore buco e che quando il tossicomane ha l’irrefrenabile voglia di droga non c’è evento capace di frenarlo, a costo di farsi nel modo più sporco o imprevedibile. Comunque l’atteggiamento di chi dà una siringa deve essere oggetto di attenzione.
Non può essere indifferente, tantomeno ammiccante o complice. Deve trasmettere una vibrazione e un’emozione, come quella del medico che è consapevole di procurare un male al suo paziente in vista di un bene futuro. Deve bandire atteggiamenti paternalistici e di predica, deve essere discreto anche verso quelle persone di cui abbiamo poca stima (spacciatori, sfruttatori ecc.). Per supportare tutto ciò e restringere il pericolo di burn-out, molto presente in chi si occupa di persone ad alto rischio di morte avendo poche gratificazioni lavorative immediate, diventano necessarie adeguate misure preventive quali frequenti turn-over ed una supervisione emotiva obbligatoria.
L’INTEGRAZIONE CON GLI ALTRI SERVIZI
L’Unità di Strada di Villa Maraini e il Centro di Prima Accoglienza, nel tempo si sono integrati alla perfezione con le altre strutture della Fondazione che intervengono a livelli diversi, sia nell’ottica di riduzione del danno che in quella di vero e proprio progetto terapeutico. Il lavoro di strada e gli interventi a bassa soglia ci hanno inserito in una realtà sotterranea priva di qualsiasi forma di mediazione con il mondo esterno e quindi con le strutture di assistenza e recupero dei tossicodipendenti.
E’ proprio questo vuoto che la nostra Unità di Strada è andata a colmare, diventando rapidamente un canale privilegiato di comunicazione con il mondo della tossicodipendenza attiva e delle sue richieste. L’attività di strada ci ha permesso di constatare sul campo quante difficoltà gli abitanti della “piazza” incontrano quotidianamente nella ricerca di ogni sorta di sostegno, da quello farmacologico o psicologico a quello più strettamente legato alla sopravvivenza quotidiana, come un pasto o un luogo dove passare la notte. Abbiamo visto quanto la selezione “innaturale” operata dai servizi pubblici e privati provochi una reazione violenta di rigetto verso ogni genere di offerta di aiuto che implichi l’immediata cessazione dell’uso di sostanze da parte dei tossicodipendenti.
Questa incapacità reciproca di mediazione fra il malato e l’istituzione preposta ad aiutarlo, ha come effetto immediato un progressivo intensificarsi dell’abbandono e dell’auto-abbandono del soggetto tossicodipendente, che, né in se stesso né all’esterno, troverà o cercherà il modo di tutelare la propria salute e quindi quella della collettività. A questo livello, di primaria necessità, opera l’Unità di Strada e il Centro di Prima Accoglienza, in questa fase d’intervento affiancate dall’Unità di Emergenza overdose operativa h 24 in tutta Roma e dal Centro Crisi Notturno che accoglie i tossicodipendenti senza case e gli offre pasti, ricovero e contenimento in un ambito protetto.
Alle fasi d’intervento successive, quelle in cui è matura la motivazione a smettere nel tossicodipendente, sono destinate altre strutture della Fondazione. La Comunità Terapeutica Semiresidenziale in primo luogo, poi Il Telefono In Aiuto che offre un programma di “comunità aperta” coniugato all’uso del naltrexone, come protezione farmacologica.
L’Unità HIV segue, dal punto di vista psicologico e medico, gli utenti di ogni servizio per problemi legati a sieropositività e AIDS, mentre il Progetto Carcere orienta e sostiene i tossicodipendenti detenuti, facilitando il ricorso a provvedimenti alternativi alla carcerazione. La fase del reinserimento è affidata alla Cooperativa di lavoro che, attraverso una Tipografia avvia nel mondo del lavoro i tossicodipendenti giunti al termine del loro cammino terapeutico. Ultima, ma non per importanza, l’Associazione Genitori che aiuta e sostiene le famiglie dei tossicodipendenti impegnati in un progetto di recupero.
Dalla strada al progetto terapeutico Il passaggio non deve per forza essere automatico, né bisogna forzare i tempi per raggiungere ad ogni costo l’obiettivo “guarigione”, ma certo è auspicabile, e in moltissimi casi questa conclusione si è rivelata possibile. Prendiamo le storie di due utenti per rendere esplicito questo concetto: la storia di Andrea. Andrea è il nome fittizio di un ragazzo di 24 anni che ha fatto uso di sostanze per 10 anni della sua vita. Ha frequentato la stazione Termini ed il nostro Camper per oltre un anno. Viveva in strada e utilizzava voracemente qualsiasi sostanza che riuscisse a trovare, dall’eroina fino ad ogni genere di farmaco che avesse azione stupefacente. Andrea è senza dubbio il ragazzo che ha accumulato il maggior numero di overdose nelle quali siamo intervenuti.
Andava in overdose in media due volte alla settimana, ma, nella sua irrazionalità, aveva la lucidità sufficiente per proteggersi prendendo l’abitudine di farsi nei luoghi e nelle ore in cui sapeva che sarebbe passata una delle nostre équipe. Lo abbiamo soccorso decine di volte, ma mai ha voluto sentir parlare di progetto terapeutico. Ha tentato in qualche occasione di andare in comunità, ma mai con la convinzione necessaria, e nessuno aveva il potere di convincerlo. Andrea è morto nel mese di ottobre di questo anno.
Non è morto di overdose, ma di un’emorragia interna che lo ha ucciso qualche ora prima del solito “appuntamento” che aveva con noi. Infine la storia di Pasquale Pasquale ha 32 anni. ha fatto uso di sostanze per oltre 10 anni della sua vita. E’ stato uno dei primi utenti dell’Unità di Strada e, come molti altri, non aveva mai avuto rapporti con strutture terapeutiche o di sostegno, neanche per il metadone. Dopo un pò di tempo che frequentava il nostro Camper ha deciso di tentare di smettere e ci ha chiesto aiuto in questo senso.
Ha trascorso il tempo sufficiente per la maturazione di questo convincimento al Centro di Prima Accoglienza, poi ha iniziato il programma di Comunità Aperta del Telefono In Aiuto e lo ha portato a termine senza grandi incidenti di percorso. Pasquale, oggi, é diventato uno degli operatori dell’Unità di Strada, è il primo, e finora il solo che ha compiuto questo percorso. Tra Pasquale ed Andrea ci sono migliaia di altri nomi e di altre storie, ognuna diversa dall’altra e ognuna con i suoi tempi e le sue necessità.
Certo è che queste due storie rappresentano due conclusioni opposte di uno stesso problema che evolve e si chiude in maniera diversa a seconda del soggetto, della persona che lo vive. Ma, allo stesso tempo, sono due storie emblematiche che da una parte ridimensionano quotidianamente le tentazioni di onnipotenza e dall’altra ci spingono ad intensificare il nostro lavoro, a farlo con un costante impegno e a riconoscerne quotidianamente importanza e valore.
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