Processo a rovescio

Da: “il Delfino” bimestrale del centro italiano di solidarietà
Anno IV numero 1 gennaio/febbraio 1979

La riabilitazione dalla droga prima della cura

CONSIDERAZIONI A RUOTA LIBERA DEL MEDICO CHE DA DUE ANNI DIRIGE LA COMUNITà DI VILLA MARAINI A ROMA. LA TOSSICOMANIA E’ UNA MALATTIA ASSOLUTAMENTE NUOVA. IL TEMPO GIOCA UN RUOLO TERAPEUTICO. GUARIGIONE E REINSERIMENTO SONO CONCETTI AMBIGUI. L’INTERVENTO “PURO” NON ESISTE. IL DIBATTITO E’ APERTO.

La terapia non è il vero problema della tossicomania. E’ solo un nostro schema mentale, perché siamo abituati alle malattie classiche, dove l’individuo prima guarisce e poi recupera, superata la fase acuta. Nascono così i tre momenti cronologicamente ben distinti e successivi dell’intervento sanitario: la prevenzione, la terapia e la riabilitazione. Nel caso della droga, tale distinzione così drastica non può esistere, in quanto i tre momenti si intersecano fra loro come tre facce di uno stesso processo.

E anzi, se proprio volessimo distinguerli in funzione del tempo, dovremmo riconoscere che la riabilitazione, cioè il reinserimento, è la condizione indispensabile e prioritaria di ogni terapia, perché è perfettamente inutile svezzare chi non ha nessun valido motivo per vivere senza l’involucro protettivo della roba ed anzi senza di questo è destinato a soccombere. Non è il buco in sé che è cattivo, o la modificazione farmacologica indotta dalle diverse sostanze, ma sono le cause individuali, familiari, ambientali o sociali che, in diversa percentuale, intersecandosi fra loro in ciascun individuo, determinano il perpetuarsi dello stato di dipendenza.

Superare tali concause è prioritario per la terapia, la quale deve quindi intersecare e non precedere, quasi fosse tutt’altra cosa, questo lungo processo che impropriamente chiamiamo reinserimento. Di cosa ci siamo convinti negli ultimi cinque anni? Che la tossicomania giovanile è una malattia nuova, che ha poco o niente a che vedere con la patologia classica ed anche con le tossicomanie del passato per almeno due motivi. Innanzitutto per la scarsa rilevanza dell’aspetto fisico. Siamo spesso portati ad esaltare la sindrome di astinenza, cioè la crisi che un individuo attraversa quando gli manchi la sostanza stupefacente.

Ma, in realtà, la sindrome di astinenza non è qualcosa di assolutamente oggettivo: è influenzabile dalla soggettività del paziente. I ragazzi di Roma la chiamano rota, secondo una reminiscenza sub culturale di quando, nel ‘700, i romani condannati venivano messi alla ruota: la sintomatologia dell’astinenza ricorda i dolori e le sensazioni che poteva provare il condannato alla tortura della ruota, quando questa veniva fatta girare. Ora, c’è chi può vivere la sua rota senza farmaco alcuno, a condizione che lo voglia. Un tacchino freddo, cioè uno svezzamento completamente senza farmaci, può avere successo, senza conseguenze negative sul fisico, a condizione che il paziente sia seriamente motivato.

L’altro aspetto di cui ci siamo resi conto è di carattere epidemiologico. Di fatto, i tossicomani sono compresi tra i 1718 e i 2526 anni. Cinque anni fa ci si aspettava che, col passare del tempo, la curva si sarebbe spostata a destra, cioè l’età media sarebbe cresciuta, ma al contrario la curva non si è affatto mossa: il picco continua a rimanere attorno ai 1825 anni. Cosa vuol dire? Che a 30 anni i tossicomani sono pochi. E perché? Qui ci sovviene anche l’esperienza americana, in particolare quella legge del 33%, secondo la quale un terzo dei tossicomani sono morti, un terzo sono divenuti tossicomani più o meno legali, cioè hanno trovato un compromesso tra le loro esigenze e quelle della società, quindi per esempio sono diventati alcolisti, ed un terzo sono guariti.

Credo che l’esperienza americana si possa ripetere, superato l’iniziale periodo di latenza, anche in Italia, dove il numero dei decessi, legati direttamente o indirettamente alla droga, non è ancora così alto, anche se sicuramente molto più rilevante di quanto non dicano le statistiche ufficiali (basti pensare a certi suicidi, alla cirrosi epatica, alle epatiti fulminanti, a certi incidenti stradali, ai regolamenti di conti), e destinato ad accrescersi ulteriormente nel futuro, anche per l’insufficiente risposta politica, affogata in un mare di prevenzioni, di paraocchi e di facile demagogia.

Se una certa percentuale di tossicomani guarisce, il passare del tempo non costituisce un fattore negativo per l’evoluzione della malattia. E la malattia non la guariamo noi medici con i farmaci, ma può guarirla l’individuo stesso con il suo processo di maturazione, opportunamente catalizzato da un corretto intervento assistenziale. In genere il tossicomane è una persona sensibile ed immatura: il tempo ha su di lui un effetto terapeutico, conducendolo a raggiungere un equilibrio fra le sue esigenze e l’ambiente che lo circonda. Di fronte a questa evoluzione, dobbiamo chiederci cosa intendere per terapia.

Terapia allora non è lo svezzamento, cioè la disintossicazione dalla droga, perché è perfettamente inutile svezzare una persona se non le si dà una ragione per cui valga la pena di vivere indipendentemente dal ricorso all’eroina. Per quale motivo io, tossicomane, dovrei smettere di prendere droga di punto in bianco, solo perché vado in ospedale e ci resto due settimane, magari trattato male, magari nei corridoi, magari assistito da personale medico e paramedico che di droga non capisce niente, magari con tutte le prevenzioni che si possono avere di fronte a un tossicomane, magari con la violenza di Stato (o di .. Regime!) verso chi si droga, come per esempio l’essere costretti all’ospedale perché manca qualsiasi altra strada, magari perché mi ci ha mandato un giudice sulla base di una perizia fatta tre mesi prima da un medico sconosciuto che mi ha visto per 10 minuti? A nessuno di noi farebbe piacere il ricovero come unica possibilità di vita, sapendo benissimo che il solo risultato sarà il superamento della sindrome di astinenza, che avremmo potuto ottenere in altri modi diversi dall’ospedale.

Ecco allora che il concetto di terapia si trasforma in quello di un lungo cammino da percorrere insieme: il tossicomane e chi lo aiuta. In questo cammino non esiste la medicina, il farmaco, il trattamento principe; ma esiste un rapporto fra il tossicomane, il terapeuta, i gruppi terapisti: e quando dico terapisti non intendo necessariamente il medico o lo psicologo, ma la persona di buona volontà che riesce ad entrare in vibrazione, cioè in frequenza di simpatia, di scambio di onde psichiche positive con il ragazzo. E’ un processo lungo, dunque, dove non esiste la panacea, dove la riassunzione di droga è un fatto costante.

Dire: “Costui è guarito, però è ricaduto”, è un nonsenso. E come sostenere che un ammalato di malaria è guarito il giorno che sfebbra; ma dopo 3 giorni è di nuovo febbricitante. Per la tossicomania, il passare del tempo è un fatto positivo. Quando vengono ad uno dei nostri centri le madri a dirci: “Saremo in tempo?” , rispondiamo: “Forse è troppo presto”. Perché agli inizi il ragazzo che si droga, come dice Claude Olievenstein, uno psichiatra francese che da due anni si occupa di questi problemi, sta in “luna di miele” con la droga. E quando un individuo è in luna di miele non ci sono santi: deve drogarsi e basta. “Sto bene perché sto fatto”. “La roba è tutto per me”. “Sono perfetto e onnipotente”. “Il resto è silenzio e non conta”. “Amo la roba di un amore totale, folle, esaustivo che non lascia spazio a null’altro”.

Anche se in tale fase non possiamo chiedere molto all’intervento terapeutico, ciò nondimeno esiste una possibilità di azione. Quello che noi possiamo fare è tentare di evitare che succeda l’irreparabile. L’irreparabile può essere una overdose, cioè una dose eccessiva di stupefacente, che poi in realtà non è quasi mai una vera dose eccessiva, ma piuttosto una miscela alterata di eroina, oppure il ricorso alla cocaina in sindrome di astinenza da eroina. O può essere, per esempio, che da una siringa sporca nasca un processo epatico aggressivo e progressivo che sfoci poi in epatite cronica o in cirrosi epatica, portando il paziente alla morte. Potrebbe sembrare un obiettivo ambizioso e difficilmente raggiungibile quello di evitare l’irreparabile.

L’esperienza insegna invece che i tossicomani che hanno dei punti di riferimento terapeutici validi, muoiono più difficilmente che quelli lasciati a se stessi o curati con indifferenza. Cito, ad esempio, le statistiche del Centro per le Malattie Sociali del Comune di Roma, in cui nessuno dei 1400 eroinomani assistiti in 5 anni di attività del Centro è morto nel tempo in cui era seguito in terapia, mentre i decessi sono iniziati quando al Centro era stata tolta di fatto ogni possibilità operativa, salvo quella di poter consigliare il ricovero. L’elevata frustrazione di tutti gli operatori sociosanitari che agiscono nel campo della droga sarebbe molto minore se considerassimo la diversità degli obiettivi in funzione del tempo, e quindi non pretendessimo dalla terapia una panacea assurda e irrealizzabile.

L’importante è convincersi che è sempre possibile intervenire, anche se con scopi diversi a seconda dell’anzianità della assunzione di droga. Qual è dunque la parabola della tossicomania? Nella fase della luna di miele, il ragazzo vede solo gli aspetti positivi della droga. L’eroina è bella e fa bene; è il miglior farmaco antidepressivo che esista, ed è pochissimo tossico. Se non determinasse il piccolo problema della dipendenza fisica e della assuefazione, sarebbe uno dei pochi farmaci davvero efficaci nella farmacopea: non a caso, è figlio diretto della morfina, un farmaco che resiste all’usura del tempo e che serve veramente a qualcosa.

E se io, tossicomane, vedo solo gli aspetti positivi e non quelli negativi dell’eroina, perché mi devo svezzare? Perché me lo dice mia madre, che forse non mi ha mai dato retta in vita sua? Oppure perché me lo dice il primario dell’ospedale, che magari è il prototipo dell’inserito nel sistema, quello che io cerco di contestare pagando di persona? E’ chiaro che continuo a bucarmi. Però, man mano che passa il tempo, gli aspetti positivi diminuiscono: si sviluppa l’assuefazione, e quindi il bello delle prime somministrazioni resta un ricordo sempre più lontano. Contemporaneamente, crescono gli aspetti negativi: l’acqua alla gola di chi deve trovare sempre la roba, i movimenti, gli impicci, la malavita, la disperazione, il completo disinserimento da qualsiasi contesto che non sia il piccolo gruppo di appartenenza, le ripetute umiliazioni.

Arriverà un momento in cui gli aspetti negativi sono pari a quelli positivi. E’ quello il momento che noi dobbiamo privilegiare, perché in quel momento al ragazzo si accende la lampadina, ed è allora che può guarire. L’amore della luna di miele è diventato un sentimento ambivalente di amore e di odio, destinato, con l’ulteriore passare del tempo, a diventare essenzialmente odio. “Ti odio perché mi hai illuso e tradito”. “Ti odio perché sei potente tanto quanto io sono debole”. “Ti odio perché la mia normalità fisica sembra essere irreversibilmente legata a te”. In questa fase sarà il paziente stesso a chiedere aiuto, perché non ne può più e non perché condizionato dall’ ambiente, come nei primi momenti della sua tossicomania.

Il rapporto che nasce è più autentico. Il problema della terapia si divide dunque in due fasi: nella prima, possiamo solo contenere, evitare l’irreparabile; nella seconda, prospettare un ventaglio di iniziative per riorganizzare la giornata del tossicomane, per reinserirlo. Che vuoi dire, poi, reinserimento? A forza di parlare, le parole diventano slogan e perdono il loro significato. Vuol dire trovare un’alternativa esistenziale, qualcosa per cui valga la pena di vivere, indipendentemente dall’eroina. E questo non è il fatto di un ambulatorio, di un rapporto dì un giorno; è un qualcosa che si protrae nel tempo, con le ricadute, le frustrazioni, gli insuccessi.
Il metadone, di cui tanto sì é discusso, non è una cura della tossicomania, ma uno strumento, uno dei tanti a disposizione, e che non va esaltato né depresso per motivazioni ideologiche, perché qui di ideologico c’é molto poco. Il metadone, a condizione di saperlo usare, ha qualche vantaggio rispetto all’eroina: il primo è che dura 24 ore anziché 6, e quindi si può somministrare una volta al giorno anziché quattro; il secondo è che dà poca assuefazione, intendendo per assuefazione il processo per cui l’organismo si abitua ad una certa sostanza dovendo aumentare le dosi per mantenere costante leffetto.

Anche se poi lo stesso metadone induce una forte dipendenza, cioè la sua mancanza sviluppa una sindrome da astinenza più prolungata di quella dell’eroina, tanto che si dice che la rota da metadone è la più dura che si possa sperimentare. Quando poi si parla di metadone, non si parla di una realtà omogenea, perché si possono intendere tante cose. Molte volte la polemica verte sul mantenimento metadonico, che è un concetto completamente diverso dalla cosiddetta disintossicazione col metadone.

A questo proposito, le Regioni, chiamate dalla legge nazionale e, ulteriormente, dai decreti ministeriali dello scorso anno a regolamentare la distribuzione del farmaco, si orientano in modi tra loro diversi, talora opposti. Per esempio, mentre fornire metadone in Toscana è segno di essere progressisti, fornirlo nel Lazio è sintomo di essere reazionari. Il problema non va affrontato in termini ideologici o di appartenenza a questa o a quella parrocchia. Bisogna affidarsi all’esperienza di chi, avendo trattato l’argomento, ha acquisito, non fosse altro che per riflesso della sensibilità e dell’esperienza dei ragazzi, la capacità di consigliare un intervento terapeutico secondo il ragazzo e il momento. Il resto è dogma.

E quando qualcuno verrà a farvi discorsi dogmatici nel campo della droga, vuoi dire che non ha mai visto un tossicomane. Tutti coloro che proclameranno “la cosa è così e basta”, “il metadone si deve usare” o “non si deve usare”, “serve solo la comunità terapeutica” o “la comunità non serve a niente” significa che non hanno mai conosciuto da vicino un tossicomane. Allora proponiamo una serie di interventi che servano, in un primo momento, a tamponare la situazione, e in un secondo momento, a ricostruire la giornata del tossicomane, in modo da evitare gli aspetti più distruttivi dell’eroina. Cosa vuol dire guarire? Che non ci si buca più? Ma se una persona quando non si buca sta peggio ed è più emarginata di prima, tanto vale che continui a bucarsi o a intraprendere la terapia sostitutiva.

Nel concetto di guarigione, noi non abbiamo un parametro da privilegiare, altrimenti facciamo il gioco del tossicomane, cioè focalizziamo tutto sul sintomo: l’atto del bucarsi; mentre, in realtà il problema è ben più vasto. Cosa vuol dire guarigione? Se un ragazzo che prima si bucava, spacciava, scippava, faceva gli impicci, e poi man mano, passando il tempo, si crea una famiglia, ha figli, non vende più, comincia a fare qualche lavoretto, e si buca una volta al mese: questi è guarito? Probabilmente no, però sicuramente sta meglio. Ed è a questo che noi dobbiamo tendere. E se c’é chi, guadagnando 300 mila lire in un mese, decide di spenderne per l’eroina solo 150, è un passo avanti, di fronte al quale non si può storcere il naso, in nome di una purezza d’intervento che in realtà non esiste. E’ già un risultato. E tutto quello che può concorrere a questo risultato, sia benedetto.